Capitolo 4

Fabio fluttuava impotente attraverso i meandri della sua mente, totalmente stupefatto. Colori, suoni, brividi; faceva tutto parte di un unico, vaporoso maelstrom psichedelico.

Una forte sensazione di déjà-vu anticipò quello che stava per succedere: la bizzarra realtà si addensò in una sorta di etere colorato, che a sua volta si ridusse gradualmente in foschia; non più un mistico artefatto della mente, ma una densa, puzzolente nebbia concreta.

La stanza che la nube nascondeva era piccola, e una sola sigaretta la aveva trasformata in una camera a gas. Fabio si sentiva mancare l’aria: aprì una finestra, e la nebbia sparì. Apparve una ragazza fulva seduta a un tavolo, intenta a girare la manovella di una specie di macinino. Il suo volto era confuso, gonfio e stanco, ma i suoi occhi verdi erano vispi.

«Denise» disse Fabio, sedendosi, «che ho fatto di male?»

«Mah, un sacco di cose direi» rispose vaga lei, mentre rovesciava il contenuto del dispositivo su una specie di tagliere in ceramica. «Da dove vuoi che cominci? Vediamo un po’… bevi, fumi, ti droghi… a volte rubi…»

«Vuoi dire che mi merito tutto questo?»

«No, certo che no. Mi hai chiesto cosa hai fatto di male, e io ti ho risposto. Tutto qui.»

Fabio sospirò. Appoggiò il bacino alla finestra, si sporse leggermente e guardò fuori. La luna si rifletteva debolmente in uno specchio d’acqua, totalmente incurante di farlo in una pozza rimasta su un piazzale di fronte a un capannone. Questo contrasto, la bellezza della luce lunare con il grezzo mondo del lavoro, faceva spaziare l’atmosfera dal romantico al sinistro. “Le zone industriali” pensò Fabio, incapace di non dare un giudizio a quel luogo, “sono strane per viverci, e questo posto è peggio che mai. Di giorno c’è il trambusto del lavoro, di notte non si vede un’anima neanche a pagarla — oddio, in realtà potrei trovarci del poetico in una casa come questa. Piccola, in alto… potrebbe sembrare quasi un rifugio, un nido…”

La voce della sua amica Denise lo ripescò dai suoi vaneggiamenti: «Che guardi?»

«È tetro là fuori» le rispose Fabio, senza voler significare granché.

«Già», fece lei, «è sempre tetro, fuori. Ma rintanarsi non serve se il tetro è dentro.»

Fabio sospirò, ma decise di non ribattere; si sentiva troppo stanco per sostenere una qualche criptica conversazione a colpi di metafore. Abbandonò il suo avamposto alla finestra e si lasciò andare sulla sedia, inerme.

«Dopo di questa, a casa non ci torni» disse Denise, mostrando orgogliosa la sua creazione. «In culo alle tradizioni: a te l’onore.»

Fabio sorrise amaramente. Passò qualche momento a frugarsi le tasche in cerca di un accendino, ma già sapeva di averlo perso; alla fine sospirò, e la sua amica gliene lanciò uno. Quasi involontariamente, socchiuse gli occhi e scoccò uno sguardo acuto alla ragazza.

«Sai che questo signor Sputafuoco è proprio uguale a quello che avevo in tasca? È una coincidenza curiosa, non trovi?»

Denise non batté ciglio. «Per niente. È una coincidenza piuttosto banale, in effetti: te l’ho preso qualche ora fa. Se vuoi te lo restituisco, ma so benissimo che non è tuo.»

Fabio sfoggiò un breve sorriso sardonico, poi fu colto improvvisamente da uno sbadiglio. «Ho detto solo — yaaawn — solo che lo avevo in tasca, non che era di mia proprietà. D’altronde, l’unico che compra davvero gli accendini è il Bagonghi; chi sono io per fargli concorrenza?»

Denise sbadigliò a sua volta, contagiata. «Sei sicuro di voler fumare? Cominci a avere una certa età, ti capisco se vuoi andare a letto.»

Fabio ignorò la provocazione. Per dei lunghi istanti, fissò la droga che la sua amica aveva appena confezionato, come bloccato da un pensiero. Quando finalmente rispose, una nota di dolore filtrò nella sua voce: «Non voglio tornare a casa.»

Quando alzò lo sguardo, vide che Denise lo stava guardando dritto negli occhi.

«Si capisce», disse la ragazza, la voce un po’ impastata. «Ho sentito tanta roba, Fabio. La gente parla, e poi scrive sul gruppo cose che ti mettono dei dubbi, e poi — poi altri te le ridicono, e allora magari cominci a crederci davvero. Ne ho sentite tante, Fabio. Mi dispiacerebbe se anche solo la metà fossero vere. In ogni caso, per me puoi rimanere fino all’ora che vuoi. Non ti devi alzare presto, domani?»

«Per fare cosa?», rispose lui, carico di amarezza. «Non ha senso lavorare. Non se tanto poi non mi pagano, almeno.»

«Allora è proprio definitivo? Il Gazzi mi aveva accennato che te la passavi male, ma credevo che esagerasse.»

«No, per una volta è tutto vero. Si chiude. La crisi, il costo del lavoro, le solite cose di tutti. Era ovvio toccasse anche a noi, prima o poi.»

Denise storse la bocca in una smorfia; sembrava sinceramente preoccupata.

«Bruno non può trovarti qualcos’altro?», chiese. «Così, tanto per campare mentre cerchi un altro posto.»

Fabio scosse la testa e sospirò.

«Gli ho già chiesto tanti favori… e poi anche lui è nei guai. Non posso mettermici anche io.»

Il conteso accendino cliccò, e apparve il fuoco.

«Si capisce», rispose Denise, nascosta da un copioso sbuffo di fumo.

La ragazza afferrò un posacenere e si spostò sul divano, distendendosi in un angolo. Con un dito, fece cenno a Fabio di seguirla; lui obbedì, accasciandosi pesantemente dalla parte opposta.

«Scusa se non sto composto», scherzò, più per abitudine che per sentimento. «Spero di non scalfire l’immagine dignitosa che hai di me.»

Denise gli sfilò di mano il magico artefatto. «Idiota», gli fece, «negli anni d’oro ti ho visto fare cose che — va beh, lasciamo perdere che mi viene l’urto del vomito.»

«Osi insinuare che talvolta ho avuto dei comportamenti non appropriati?»

«Insinuo, eccome!»

«Allora vai a insinuare in bagno, che qui c’è gente impressionabile. Piuttosto, senti una cosa…»

Fabio esitò. La risposta sarebbe stata ovvia, ma doveva comunque chiederglielo e si sentiva un po’ in imbarazzo.

«…posso restare fino a domani? Tanto tra un po’ ribalto per terra e svengo, non ti do noia.»

Prima di rispondere, Denise gli si avvicinò. Mise una gamba sopra le sue, usandolo a mo’ di poggiapiedi, e gli fece fare un tiro di mano sua. «Rimane pure, ma svieni nel letto, non per terra. Dani rimane fuori tutta la notte, c’è tutto il posto che vuoi. La Lavinia è a giro?»

«Ah boh», fece sconsolo lui. Denise gli lanciò un’occhiata indagatrice, e lui proseguì: «In tutta sincerità, non ne ho idea. Ci parliamo il minimo indispensabile, non voglio proprio sapere dove va. Ma non è per lei, né per Daniele; tanto lui sverrà da qualche parte, come sempre.»

Lei continuò a guardarlo. «Come quando, esattamente?»

«È già un paio di volte che lo trovo appoggiato al muro del piscio alle cinque. Una volta quella fava del Gazzi gli ha anche pisciato addosso.»

«Ma che cazzo…?»

«Tranquilla, appena mi sono accorto che lo stava facendo davvero gli ho fiondato la testa sul muro!»

Denise passò la sigaretta corretta e distolse lo sguardo, perplessa.

«Credevo che avesse qualche giro», disse al divano. «O che al massimo andasse a puttane. Mi aveva detto di avere smesso…»

Fabio si pentì con qualche frase di ritardo di aver toccato quel tasto. «Mi dispiace» disse, desideroso di chiudere il discorso il prima possibile.

«Di cosa, di avermi detto la verità?»

«Sì, esattamente. Odio essere l’ambasciatore di queste cose.»

«Tranquillo, non dirò a Dani che te lo sei lasciato sfuggire» sibilò lei, maliziosa.

Fabio tirò un sospiro di sollievo senza nemmeno premurarsi di nasconderlo.

Denise ridacchiò e lo abbracciò. «Tu sì che sei un ubriacone responsabile», gli disse, mordicchiandogli un orecchio. «Sai, avrei preferito cento volte te a Daniele»

«Maledetta» sibilò Fabio, liberandosi stizzito dalla presa. «Infili il dito nella piaga?»

«Tu lo hai infilato nella mia» rispose lei, senza smettere di sorridere.

«Ma non l’ho fatto apposta!»

«Certo che l’hai fatto apposta. Ricordi?»

Fabio stette qualche istante a fissare stupidamente il vuoto, poi l’intuizione lo colpì come un fulmine. Un sorriso esasperato gli si dipinse sul volto: aveva ingenuamente scoperto il fianco, ed era stato colpito senza pietà con un pezzo del suo passato da ragazzino curioso.

«Smetterai mai di tirare fuori questa storia? Guarda che non ero solo io, eh! Anche te mi sembravi parecchio contenta! Non ero chissà quale mostro precoce che — ah.»

Fabio fece finalmente due più due; l’intera situazione non avrebbe potuto essere più chiara.

«No. No, proprio no, davvero. Non mi sembra proprio il caso.»

Neanche questa risposta spense il sorriso a Denise; anzi, la fece ridacchiare. «È sempre il caso», sentenziò. «Com’è che dici te? Un’onesta razione di cazzo non va negata a nessuna, era così? Non puoi semplicemente dire di no. Siete schiavi del vostro istinto, voi maschi. Basta solo sapervi accendere e poi… fate il vostro.»

Fabio non replicò; non c’era proprio niente che avrebbe potuto dire.

La sigaretta di droga esaurì il suo potere, e finì accartocciata senza pietà nel posacenere. Denise si alzò a fatica dal divano, gonfia come una zampogna ma sorprendentemente ben ferma sulle gambe. Con confusa lentezza, si affaccendò per riempire due calici con del vino bianco.

«Vermentino» disse, porgendone uno a Fabio, il quale borbottò un grazie con voce funerea.

Lei stette a fissarlo per un po’, poi sbottò: «Madonna, ma che hai? Ti è morto il gatto?»

Effettivamente, la faccia di Fabio era più adatta a un cimitero che a un after party a due. Tracannò mezzo bicchiere in pochi sorsi, poi rispose: «Io sono morto, non il gatto.»

Denise assunse un’espressione dura, come se stesse impiegando ogni suo grammo di forza per evitare di alzare gli occhi al cielo. Piombò accanto a Fabio e lo costrinse a bere il resto del suo bicchiere, poi glielo riempì di nuovo.

Lui, intontito dall’alcool e dalla droga, non riuscì a fermare il suo flusso di coscienza. “Altro che schiavo dell’istinto”, pensò, “sono talmente stupido da aver scommesso tutta la mia vita su una persona. L’ho messa al centro del mondo, ho lavorato sodo per costruire un futuro insieme, e poi… Ma gli altri no, non sono come me”, disse a sé stesso, in una disperata presa di coscienza. Il fumo continuava a fluttuare nella stanza, e lui lo osservava rapito; gli pareva di vedere ciò che pensava in quelle grigie spire. “Gli altri maschi non sono così”, sentenziò. “Dovrei andare a caccia, invece di fare il nido. Dovrei essere un predatore… Dovrei farlo?

Denise sbottò, distogliendo Fabio dalla sua mente riflessa nel fumo. «Ooh?! Ce la fai?! È dieci minuti che parlo da sola!»

«Eh? Oh, sì, scusa… Mi sento un po’… stupefatto» rispose lui, incespicando nelle parole.

«Bene, no?»

«Credo di sì… Perché non dovrebbe essere bene?»

Non era bene, neanche un po’. La droga lo aveva reso debole, fragile, incapace di proteggersi dal giudizio di sé stesso. Quella situazione, quell’intimità… Non aveva del fracasso in cui nascondersi, una rissa con cui distrarsi o un Gazzi da odiare. Era nudo al proprio cospetto. Bevve un ennesimo, generoso sorso dal bicchiere che teneva in mano. Non riusciva a smettere di pensare, di riflettere su tutto ciò che lo aveva reso così miserabile, di tormentarsi per la sua incapacità di impedire il degenerare degli eventi.

«Se almeno avessi ancora qualcuno a cui aggrapparmi…» pensò Fabio ad alta voce.

Denise gli scoccò uno sguardo perplesso. «Stai pensando a lei?» domandò, dopo una lunga pausa.

«Sì — è lei, cazzo, il tassello mancante! Ho investito tutto su di lei, per cosa? Per ritrovarmi in questa merda da solo? Sarei riuscito a sopportare tutto, ad affrontare tutto! Ma così è come… come se mi mancasse la terra sotto i piedi.»

Aveva detto troppo. Non doveva parlare quando era stordito, se l’era ripetuto infinite volte in tutta la sua vita; ma a che servono gli ammonimenti quando, in preda alla confusione indotta dalle sostanze, si riesce a malapena a esistere?

Denise gli tolse di mano il bicchiere piuttosto bruscamente.

Eccoci, ora si è offesa!” pensò Fabio, con una punta di panico. “Non potevo stare zitto? Perché non riesco a stare zitto? Sono proprio un coglione!

Ma Denise non si era offesa; si era messa a trafficare, piuttosto goffamente, intorno a un mobile a vetro. Diverse bestemmie dopo, riuscì finalmente a tirare fuori una bottiglia di liquore e, nel giro di qualche istante, Fabio si ritrovò in mano un bicchiere colmo di profumato liquido ambrato.

«Amaretto» disse lei, dolcemente. «Non è la cosa più elegante e pregiata del mondo, ma se hai ‘ste turbe pe’ i’ capo ci vuole qualcosa di più forte del vino.»

Fabio ne bevve un sorso. Il buon sapore di amaretto, quel mix di dolce e mandorla amara, gli disegnò sul volto una strana espressione.

«Non ti garba?», chiese Denise.

«Lo devono ancora inventare lo spirito che non mi garba», sospirò sconsolato, prima di bere un altro, generoso sorso. «Sono proprio un alcolizzato di merda» pensò ad alta voce, fissando per qualche istante il vuoto.

Dopo quelli che gli parvero parecchi minuti, Denise parlò al suo orecchio: «Sì che lo sei. Ma l’alcool e la droga non ti bastano, vero? Ne vuoi sempre di più. Non ne hai mai abbastanza per calmare le tue angosce…»

La voce della ragazza gli arrivava improvvisamente in modo diverso dal solito: era dolce ma pungente, e in qualche senso lo intrigava. Lei gli sfiorò il collo con le labbra. Fabio sentì qualcosa muoversi in zone oscure; possibile che… ?

«Sì» la assecondò Fabio, trovandosi a imitarne il tono suadente senza neanche rendersene conto. «Non ne ho mai abbastanza… Ne faccio un’altra.»

Non sapeva perché stava rifiutando così stupidamente le avance di Denise, nonostante evidentemente ai fini pratici le apprezzasse. Era ancora così legato a Lavinia, dopo tutta l’indifferenza e l’incertezza che aveva sopportato? O forse era solo fuso dalle varie droghe che aveva assunto, legali e non, e quindi semplicemente non capiva più niente?

Perplesso da sé stesso, Fabio cominciò a produrre.

Alzò lo sguardo dalla sua attività solo a lavoro ultimato, accorgendosi che Denise lo stava osservando smarrita. In uno slancio di acidità, suppose che con tutta probabilità nessuno prima di lui aveva mai rifiutato le attenzioni della bella Denise con così tanta indifferenza. Si sentì un po’ stupido, ma non poteva farci niente; ogni boccata di fumo, ogni sorso di liquore lo rendeva sempre più triste e meno capace di controllare sia la sua mente che il suo comportamento.

Come se avesse indovinato i suoi pensieri, Denise ruppe l’imbarazzante silenzio che era sceso nella stanza. «Capisco. Io… beh, non ti nascondo che avevo ben altri programmi, ma sono comunque tua amica. Se vuoi, se hai bisogno… ti ascolto.»

Fabio non voleva riversare se stesso su di lei, ma non poteva impedirselo. Prima che riuscisse a pensare qualsiasi cosa, cominciò a parlare.

«Cosa vuoi che ti dica? Sai già più o meno tutto, no? Forse ne sai addirittura più di me. L’ho sempre data per scontata, sai? Siamo insieme da millenni. Senza di lei, tutto mi crolla addosso. Credevo che mi amasse e che tenesse a me. Credevo che ci sarebbe sempre stata. Nonostante tutto…»

Fece una pausa e inspirò. Tracannò disperatamente l’amaretto che rimaneva nel bicchiere, quasi strozzandosi. Denise si avvicinò per battergli una forte pacca sulla schiena, ma quando lui riprese a respirare normalmente non gli tolse il braccio di dosso. Fabio non ci fece il minimo caso; si accese la sigaretta corretta e, come posseduto, continuò a parlare.

«Il lavoro mi ha sempre fatto schifo. Volevo riprendere a studiare, volevo prendere la situazione in mano, volevo un sacco di cose… Ora che assisto impotente al crollo di tutto quello che abbiamo costruito in questi anni, schifo o non schifo, mi sarei persino messo a pregare pur di continuare ad avere una sicurezza economica. Ma sì, ‘fanculo ai sogni e alle aspettative. Tanto ci sarebbe stata lei. Avrebbe sostenuto tutte le mie scelte, mi avrebbe dato quella sicurezza che mi serve per affrontare il mondo…»

Fece una pausa per fare un tiro. Denise ne approfittò subito: «Era tutto rose e fiori? Davvero?»

Le sue mani in qualche modo erano finite sul petto di Fabio e lo stavano accarezzando dolcemente. Lui le ignorò e proseguì: «Col cazzo. Litigavamo, si… Eccome se litigavamo. Ma poi bastava guardarci per capire che ci si stava scannando per cazzate, e che quello che ci legava era molto più forte di quello che ci stava dividendo… Prima era così, almeno. Ora è tutto freddo e statico, tutto indifferente — con me, almeno. Preferirei che ci prendessimo a pedate, piuttosto.»

«Si capisce» rispose Denise con dolcezza. «Dai, vieni a stenderti, sei un pezzo in là. Continuo ad ascoltarti, se vuoi…»

Fabio non si mosse, né parlò. Il pensiero proibito, quello che tanto a lungo aveva provato a nascondere a sé stesso, prese forma. Mentre la sua coscienza si spegneva, corrosa fino all’osso dalla combinazione di sostanze che aveva assunto, la sua immaginazione gli dipinse con crudele realismo l’incubo che lo tormentava ormai da tempo: la sua amata Lavinia e la sua nemesi Gazzi, insieme. Tese avanti le mani, cercando di afferrare i due spettri per dividerli, per riappropriarsi di ciò che gli apparteneva, per punire chi aveva osato tanto — ma era tutto inutile.

Udì una voce in lontananza: «Che fatica, ‘sti òmini disperati…»

Si accorse vagamente di essere trascinato, ma era incapace di opporsi a qualunque evento stesse accadendo. Accettando l’oblio come unica salvezza, si arrese: tutto sparì, inghiottito da un profondo abisso oscuro.