Capitolo 3

Turbinìi colorati e lampeggìi arzigogolati sferzavano lo spazio, restando impressi nella realtà per qualche istante prima di venire sovrascritti da altri guizzi cromatici.

Il frenetico danzare degli artefatti psichedelici era tanto regolare da essere ipnotizzante; tutto accadeva e smetteva di esistere armonicamente, rispettando proporzioni temporali sconosciute ma perfette. Quell’incredibile coreografia sembrava destinata a essere perpetua, perché tale perfezione non poteva che durare per sempre.

Nonostante la sua eternità intrinseca, l’insieme di luci e colori aveva una sua progressività: il variopinto etere diventava sempre più solido a ogni ciclo cromatico, distillandosi lentamente in qualcosa di molto simile alla realtà concreta.

Piano piano, conservando il moto perpetuo che aveva acquisito, quel bizzarro mondo si condensò nella spettrale riproduzione di un passato recente.

Comparvero dei tavolini bassi, da fumo, e divanetti di finta pelle scadente.

Fabio era seduto su uno di essi. Osservava i resti del bicchiere di plastica che aveva appena rotto, maledicendo la sua stretta compulsiva. Sembrava molto stanco, quasi rassegnato, ma probabilmente era solo un po’ brillo. Voleva prendere altro da bere, ma gli faceva tanta fatica; il divanetto era così avvolgente, la palpebra così pesante…

La sua sete lo costrinse a vincere la stanchezza. Si alzò, attraversò la stanza gremita di gente e si accinse a preparare un cocktail al tavolo del buffet. “Che gin di merda”, pensò, mischiando l’alcolico scadente con del rum chiaro e della vodka. Non fece neanche in tempo a ringhiare alla bottiglia il suo disappunto che si accorse di quanto vano fosse stato il suo intento: mancava il triple sec.

«‘io serpente maiale!» imprecò a denti stretti, mangiandosi una consonante.

Buttò via il suo abbozzo di Long Island e scrutò il tavolo, maledicendo chi avesse scelto le bottiglie da portare. Concluse che l’unica cosa fattibile senza scendere a compromessi disumani fosse un Vodka Tonic. “Almeno la tonica è di marca”, si convinse, mentre cercava con crescente disperazione un bicchiere più o meno pulito.

Preparato il suo misero drink, ne bevve un sorso e si guardò intorno. Il suo sguardo scorse su varie persone, dribblò accuratamente una ragazza bionda e fu infine rapito dalla figura di un individuo ostile, spavaldamente appoggiato al muro dalla parte opposta della stanza.

Gazzi, quanto sei patetico”, pensò Fabio. “Sarò disperato e cornuto, magari anch’io patetico — ma almeno non sono te”.

Come se l’occhiata di Fabio lo avesse pungolato, quell’uomo si scrollò appena. Era un ragazzo di media statura, aveva la pelle olivastra e i capelli neri; il suo volto presentava dei tratti estremamente comuni, quasi banali. Forse era il modo in cui si era vestito, di un’eleganza così classica da compiacere la più vecchia delle nonne, ma somigliava un po’ a un becchino. Si chiamava Giacomo Gazzi.

Fabio continuò a fissarlo, incapace di fermare il flusso di pensieri che ormai sgorgava libero.

Le scarpe del Gazzi lo infastidivano parecchio. Anche la sua giacca lo infastidiva. A dire il vero, Fabio odiava con passione ogni cosa che quell’idiota aveva addosso, dalla camicia di sartoria con la cifratura sul colletto all’orologio Panerai da diverse migliaia di euro. Però, quelle scarpe… quelle maledette scarpe lo mandavano proprio in bestia. Come diavolo funzionava la testa di quell’idiota? Cosa gli aveva fatto pensare — ammesso che ci avesse almeno provato, a pensare — che calzare delle scarpe del genere in quel contesto fosse una buona idea? C’era un motivo se lì nove persone su dieci portavano gli anfibi, e non era solo il fatto di essere a una festa di simil-rockettari in un locale underground. Per terra c’era di tutto, dalla cenere al vomito, se non addirittura qualche persona troppo impegnata per mantenere la propria dignità a livelli accettabili. Ogni passo rischiava di far perdere valore per diverse centinaia di euro a quelle dannate scarpe.

Gazzi, io ti ammazzerò” pensò Fabio, mentre con un furioso, lungo sorso seccava la sua bevuta, “sei troppo stupido per vivere”.

Una voce irruppe: «Fontanelli! Tutto a posto? Vuoi uccidere il buon Gazzi?»

Fabio trasalì e si voltò. Un ragazzo biondo dal volto pallido e scavato apparve davanti a lui. «Dani» prese a rispondere, un po’ turbato dal fatto che l’inquietante figuro avesse indovinato i suoi pensieri, «certo che lo voglio uccidere, chi non vorrebbe?»

«Beh zio, te di sicuro! Hai quest’aria assassina che sai, non lascia proprio dubbi.»

Fabio non replicò, e un contemplativo silenzio scese fra i due.

Fu il ragazzo biondo a romperlo: «Lo sai, no? Se mi concentro, posso vedere il fuoco del nazionalsocialismo avvamparti nello sguardo, almeno mentre sei lì che progetti la spedizione in Siberia di Giacomo Gazzi. Ormai ti ho distratto, ma se ti avessi lasciato elucubrare un altro po’ si sarebbe sentita la colonna sonora dei tuoi pensieri».

«Cioè?» chiese Fabio, divertito. Adorava gli sproloqui totalitaristi di Daniele Brogelli, discorsi privi di qualsiasi significato ma esilaranti e terrificanti allo stesso tempo.

Lui gonfiò il petto e proclamò in tono solenne, gesticolando pomposamente: «Un rumore — anzi, un coro, perché è musica — un coro di anfibi che marciano, calpestando facce bolsceviche; urla di prigionieri politici che, martoriati dalle fruste, poggiano le rotaie della ferrovia transiberiana, sulla quale i leader della rivoluzione sfileranno trionfanti godendo della sofferenza che ne permise la costruzione! Allora Egli si desterà dal suo sonno, la divisa marmorea sulla fronte, i baffi lambiti dal vento, e marcerà trionfante sulla Piazza Rossa, acclamato da pugni alzati e saluti romani!»

Niente di tutto quello aveva il minimo senso, ma era bellissimo: la risata di Fabio eruppe.

«Dani, sei sobrio marcio», gli disse non appena riuscì a riprendere fiato, «fai discorsi fin troppo sensati. Fatti fare un beverino prima che il Leka ti senta e ti prenda sul serio.»

La quiete scese nuovamente fra di loro e Fabio preparò altri due Vodka Tonic, pregando che Daniele non facesse caso al fatto che per lui aveva preso un bicchiere vuoto, abbandonato sul tavolo da chissacchì.

Un argomento ingombrante, accuratamente evitato per tanto tempo, stava esercitando un’incredibile pressione su quel fragile silenzio. Daniele non riuscì a sopportarla: parlò.

«Insomma zio», disse a bassa voce, «questo Gazzi non la vuole smettere di fare il dandy nemmeno qui al Cipher, eh?»

Fabio osservò per un attimo quel volto sciupato dalla droga prima di rispondere. Daniele, con tutti i difetti che poteva avere, era affidabile. Il suo passato da tossicodipendente e le cicatrici che esso aveva lasciato nel suo presente lo rendevano un sicuro confessore; se mai avesse deciso di divulgare segreti in giro, non sarebbe stato preso molto sul serio. E poi era suo amico, e in fondo a Fabio bastava: decise che poteva intraprendere con lui questa conversazione.

«La senti davvero la colonna sonora dei miei pensieri, eh?», gli disse un po’ amaramente.

«Zio, io non lo biasimo troppo. È vuoto dentro, mi capisci, vero? Ha bisogno di fare così.»

«Ma dove prende i soldi per vestirsi a quel modo? Voglio dire, io non potrei mai permettermi tutta quella roba — se mai avessi voglia di comprarmela.»

«Fa sacrifici, sicuramente. Vedi che va sempre a scrocco: non prende mai la macchina se qualcuno lo può scarrozzare, non offre mai il primo giro, cose così. Una volta l’ho visto a gattonare nell’altra stanza, forse cercava qualche beverino abbandonato per non comprarselo, oppure voleva solo frugare nei giubbotti, non lo so. Sinceramente, dopo un po’ scoccia anche, ma è una persona così piccola che non me la sento mai di dirgli niente. Tu lo odi, è normale che lo odi…»

«Quindi quasi non mangia per andare in giro vestito da milionario?»

«Sì, secondo me sì. Lavora e vive per i pochi momenti in cui può sentirsi davvero vivo, mi capisci? L’ho fatto anche io, so cosa significa…»

Fabio pensò. Praticamente, Gazzi si drogava con la sua apparenza: credersi migliore dei quattro stronzi che frequentava gli piaceva così tanto da sacrificare ogni altra cosa nella sua vita in favore di quella sensazione. Fabio non riusciva proprio a provare pietà per lui, solo puro disgusto.

«Dai zio, basta parlare di cose brutte, fanne tre.»

I due amici si misero a sedere e cominciarono a lavorare.

«Con la Denise come va?» chiese Fabio, mentre trafficava con il suo borsello in cerca dell’occorrente.

«Come sempre, zio. Lo sai come siamo fatti, non credo cambieremo mai. Godiamo dei nostri pregi e sopportiamo i nostri difetti. Certo, a volte sopportiamo più di quanto godiamo, ma viviamo per quando succede il contrario. Abbiamo imparato ad andarci bene così, non ci chiediamo niente di ciò che non possiamo darci. Siamo liberi.»

«Beati voi» sospirò Fabio, soppesando la mista e decidendo che la materia prima era sufficiente.

Sul volto di Daniele si dipinse un accenno di sorriso, ma svanì subito. «Te e la tua bella ormai siete al capolinea?»

«Magari la situazione fosse così definita. O forse lo è, ma io non riesco comunque a trovarne un senso. Lei ormai… È palese, ma fa finta di niente. Fa sempre finta di niente… Ho cominciato a farlo anch’io. E anche lui fa finta di niente, il nostro caro Gazzi! Accidenti a lui e alla sua stirpe! Si comportano tutti e due come se non stesse succedendo niente, tutti quanti, ma nel frattempo tutto il mondo sa che ho le corna!»

«Zio, io non ti ho mai detto niente, ma le voci arrivano a me come a te, è chiaro.»

«Non è solo questo, comunque. Sta andando tutto a puttane Dani, veramente tutto: ormai non ho più un lavoro, o una qualsiasi fonte di reddito, né una famiglia che mi possa aiutare… Non ho più voglia di trovare giustificazioni assurde alla merda che mi sta arrivando addosso, voglio… Voglio smettere.»

Con meditabonda lentezza, Daniele estrasse dalla tasca un biglietto del treno e cominciò a piegarlo con cura.

«Stai pensando al suicidio?»

Il suo volto appariva ancora più sciupato del solito, ma nei suoi occhi c’era un risoluto fervore. Fabio sostenne il suo sguardo.

«No» rispose amaramente. «Piuttosto mi armo fino ai denti e comincio ad ammazzare gente a caso, finché non mandano l’esercito a fermarmi. Poi erre uno, erre uno, tondo, erre due, su e giù tre volte e ricomincio. Cazzate a parte, perché dovrei? Ce l’ho con gli altri, non con me. Chi si suicida… è un debole.»

Ci fu un lungo istante in cui l’atmosfera si addensò, facendo precipitare sulla scena un assordante silenzio.

Infine, Daniele parlò.

«Non diresti così, amico, se avessi passato tutto quello che ho passato io.»

«Scusa» disse Fabio, vergognandosi come un ladro per la sua mancanza di tatto.

Non avrebbe dovuto dirlo, o almeno non proprio a lui. Il tema era molto delicato per Daniele: a causa della sua tossicodipendenza e dei motivi che lo avevano condotto ad essa, quell’uomo aveva attraversato momenti di pura disperazione. Quelle parole dovevano avergli fatto più male di un dito in un occhio.

«Il suicidio può essere generosità, non resa», spiegò egli, paziente. Non sembrava offeso. «Può essere il sacrificio della tua esistenza in favore di quella dei tuoi cari. Se tu fossi un peso economico per la tua famiglia, un motivo di vergogna e un pericolo per la loro incolumità, toglierti la vita sarebbe la cosa più altruista che tu potresti fare. Ma sarebbe anche la cosa più facile e più povera di amore per te stesso.»

Gli occhi di Daniele si inumidirono un po’. Fabio abbassò lo sguardo in forma di rispetto: Daniele era più grande di lui e infinitamente più saggio. L’oscurità dalla quale era riemerso sminuiva qualunque altro tormento. Non avrebbe proprio dovuto permettersi di apostrofarlo in quel modo.

«Dani, scusa, davvero. Sono stato indelicato.»

«No, Fontanelli, sei stato onesto. Sei fatto così, non ti interessa se quello che dici ferisce il prossimo. Ma almeno sei vero, perciò ti perdono. Di finta commiserazione ne ho avuta abbastanza. Appizza ‘sta fiamma, zio.»

E i due amici fumarono insieme.

Il fumo vorticava turbolento verso il soffitto, prima di ricadere dolcemente avvolgendo i due ceffi in una mistica nebbia. Lo stordimento penetrava deliziosamente la corazza di ostentata sobrietà di Fabio, facendo capitolare la sua patetica maschera e costringendolo ad apparire com’era veramente: ubriaco, stupefatto e stravolto dalla stanchezza.

Neanche il tempo di godersi quello stato di nuda trascendenza, che un evento catturò l’attenzione di tutti i presenti.

«Ebreo di merda, t’ammazzo!» sbraitò un ragazzo enorme dai capelli rossi, gettandosi contro un tizio alto e un po’ torto.

I due si aggrovigliarono in una pietosa lotta a terra. Parecchie persone accorsero per rimetterli in piedi, anche se nessuno aveva la reale intenzione di interrompere le ostilità. Fabio ormai era diventato parte del divano e non si mosse, ma osservò con vivo interesse la scena: i due combattenti erano suoi amici.

«Che l’abbozzi!?» ansimò il ragazzo torto, stendendo il suo avversario con un sonoro montante nello stomaco, ma scivolando di nuovo a terra per lo sforzo. Non ebbe neanche il tempo di riprendere fiato che il rosso si rialzò inviperito e gli assestò due pedate sulle gengive, probabilmente rompendogli qualche dente.

«Che la fa’e finita!», urlò furiosa la ragazza bionda di cui Fabio tentava disperatamente di ignorare l’esistenza.

Udita la sua voce, la coppia di combattenti si congelò all’istante.

«Che vu c’ave’e?» continuò lei. «O andae a’ ammazzavvi fòri, o l’abbozzate! Che ave’e ‘nteso?»

I due si lasciarono andare, percependo nell’ostentato dialetto pratese della ragazza un pericolo indescrivibile. Dai loro sguardi si intuiva che avrebbero voluto combattere fino all’ultimo respiro.

«Sei un cazzo di ebreo, infame di merda!» cominciò a sbraitare il ragazzo dai capelli rossi, schifosamente ubriaco. «Che cazzo ti ho fatto?! Eh?! Sei un infame, un infame… Fai schifo, speriamo tu muoia, sempre a pensare ai soldi, ebreo di merda…»

«O’ Anton, la fa’ finita? Bada ‘ome tu l’ha’ conciato! Oh’icché t’arà ma’ fatto i’ Bagonghi?» sbottò ancora la ragazza, esasperata.

Anton non sembrò minimamente intenzionato a rispondere: prese e andò via, senza smettere di borbottare confuse maledizioni.

Il Bagonghi, senza osare rialzarsi da terra, si mise a sedere a fatica, sputò una boccata di sangue misto a denti e mugolò: «Carabinieri… La bamba… Non potevo proteggerlo, mi sono tirato fuori — avrei chiuso! Forse chiuderò comunque, ma ci mancava soltanto lui…»

«I carabinieri hanno trovato la droga al Leka? E te? L’hai licenziato? ‘o cane, e ci credo l’è ‘ncazza’o!» lo incalzò la ragazza.

Bagonghi annuì, sputò, sillabò una bestemmia e poi rispose: «Lavinia… Che potevo fare… Erano carabinieri, non li consocevo, non ho avuto scelta! Avrei dovuto provare a corromperli e farmi sbattere dritto in galera, senza pasasre dal via? Non potevo impedirgli di entrare e di frugare dove volevano, c’era il mandato…»

Fabio, vinta la repulsione che aveva ad avvicinarsi a Lavinia, si scollò dal divanetto e, insieme al Brogelli, aiutò il suo amico ad alzarsi da terra.

Dopo essersi rimesso in piedi, egli continuò: «Quell’idiota del Leka crede che li abbia chiamati io i caramba, perché l’altra settimana abbiamo litigato. Si fa troppo i cazzi suoi, mi ha fatto degli errori che mi hanno fatto perdere diversi soldi — e quel cretino ora crede che abbia messo in piedi tutta la faccenda solo pe rliberarmi di lui!»

«Non posso credere che tu abbia fatto una cosa del genere!» esclamò Daniele.

«No che non l’ho fatta!» replicò brusco il Bagonghi, sputacchiando sangue e saliva ovunque. «L’ho solo rimproverato perché mi aveva fatto perdere dei soldi, non lo voglio far schedare! Non so chi cazzo ce li ha portati i carabinieri, ho qualche idea, ma di sicuro non mi sono andato a mettere nella merda solo per licenziare il Leka!»

«Certo è proprio stupido» intervenne Fabio, incapace di trattenersi. «Cosa ti porti a fare la coca al lavoro? Una bottarella in pausa caffè, così la giornata prende tutta un’altra piega?»

«Credo la spacciasse a qualche mio dipendente», disse il Bagonghi, ammiccando in una certa direzione. «Ma non me ne frega niente, se non l’avessero beccato non lo avrei licenziato, che cazzo me ne frega della droga!»

«Già, che cazzo te ne frega della droga…» ripeté meccanicamente Fabio, assorto nell’osservare qualcuno a cui, nella più completa ipocrisia, della droga fregava eccome, soprattutto quando poteva ostentare il fatto di potersela permettere. Perché non riusciva a smettere di tirarlo in ballo in qualsiasi suo pensiero?

Le cose stavano cominciando ad assumere nuovamente la loro forma eterea e i suoni si stavano ovattando sempre di più. Ma la scena non svanì abbastanza in fretta: Lavinia si accorse che Fabio stava guardando il Gazzi, probabilmente sfoggiando il suo sguardo trucidatore. Fece per avvicinarsi, forse stava per parlare, ma Fabio la bloccò.

«Lascia stare, lascia stare…», le sussurrò.

Il suo sguardo incrociò quello della ragazza: amaramente, ci sprofondò dentro. Come una dolce morfina che neutralizza il dolore al malato, l’ambiente psichedelico riapparve prepotente, cancellando ogni barlume di realtà.