Cronache del Male - Vol.2
18:30…
Il tempo passava con innaturale lentezza. Ulrico era sicuro che fossero le odiose sei-e-mezzo da almeno un secolo.
18:30…
18:30…
18:30… 31!
«Mapporc…» bofonchiò esausto. Ancora un’altra mezz’ora e sarebbe potuto fuggire da quel maledetto ufficio.
18:31…
18:31…
«Aaargh!»
Ulrico si rimise a lavoricchiare, ma lo slancio produttivo durò poco: si ritrovò ancora una volta a guardare intensamente l’ora sul suo computer, sperando che salmodiare bestemmie potesse velocizzare lo scorrere del tempo. Il suo lavoro consisteva nell’inserire dati per conto di una delle tante megaditte dell’Impero; solitamente non gli dispiaceva, ma quel giorno era assolutamente esausto e non vedeva l’ora di tornarsene a casa da sua figlia.
Un pensiero funesto gli disegnò un’espressione di puro terrore sul viso: quella mattina aveva lasciato sua figlia arrabbiata, ed era sicuro che al suo ritorno a casa l’avrebbe ritrovata ancor più furiosa.
«Non si può mai star tranquilli», gemette sottovoce, portandosi una mano alla fronte.
«Ulrico? Ti senti bene?» trillò una voce femminile alla sua destra.
«A-ehm… EHM… Sì, sì, sto bene», si ricompose in fretta lui. «Oggi sono solo un po’ stanco.»
La sua collega Pancrazia lo stava squadrando preoccupata. Ulrico arrossì: aveva una cotta spaventosa per lei.
«Uh, ok! Se hai bisogno di qualcosa non esitare a chiedere!» flautò lei con gentilezza. «Però è un peccato che tu sia così giù di corda stasera, avrei voluto chiederti se ti andava di farti fare un soffocone in bagno —
EH???
— di fare un aperitivo insieme appena usciti di qui…»
AH. Eh…
Ulrico si raddrizzò dalla posizione spalmata in cui era e quasi saltò sulla sedia: cosa aveva appena sentito? Pancrazia voleva uscire con lui? Non poteva crederci! Non si sarebbe fatto scappare l’opportunità per niente al mondo.
«Macché giù di corda!» asserì spavaldo. «Certo che mi va, ci starebbe proprio bene un bel soff — sì, un bicchiere di vino!»
Pancrazia sorrise. Erano mesi che stava cercando il coraggio per chiedere ad Ulrico di uscire; fin da quando i due erano vicini di scrivania, era subito rimasta affascinata da lui. Adesso che finalmente aveva colto l’occasione per fare il primo passo, stava facendo mentalmente i salti di gioia.
Finito l’orario di lavoro, quasi per magia, i due si ritrovarono accomodati ad uno stretto tavolino con un bicchiere di vino in mano, e cominciarono a parlare.
Ulrico raccontò di sua figlia, dal carattere terrificante ma con un cuore d’oro. Pancrazia già lo sapeva, aveva sentito spesso il suo collega nominare Clarabella; aveva addirittura sbirciato mentre lui scriveva un messaggio alla ragazza, poco prima di uscire dal lavoro. Ulrico rivelò anche che si era trasferito nell’Impero da un paio d’anni, ma che ancora non si era abituato alle bizzarre regole che costellavano la vita quotidiana.
Pancrazia, dal canto suo, raccontò tra una risata e l’altra che il suo strambo nome era stato scelto proprio a causa di una delle regole dell’Imperatore: era venuta al mondo nel giorno in cui ogni neonato avrebbe dovuto avere un nome che iniziasse per P, contensesse un Z e avesse tre consonanti di fila.
L’appuntamento sembrava procedere per il meglio quando, all’improvviso, un acuto squillo di tromba perforò le orecchie a tutto il bar.
«Gesucca’…» si lasciò andare Pancrazia. «Proprio oggi doveva essere! Mai una gioia!»
Sentendo la bestemmia smozzicata di Pancrazia, Ulrico decise immediatamente che lei era di certo la sua donna ideale. La guardava con gli occhi a cuore e la mente altrove: si stava già immaginando il matrimonio.
«Ehm!» cercò di ricomporsi Pancrazia. «Sì… sì ti piace che altrui quella mattina non sia… non quella dei silenzi al concorde!»
Ulrico si riscosse. «Eh!?», fece confuso. Era una sua impressione o Pancrazia stava realmente dicendo cose senza senso?
«Non hai torto, scrivere colì… non è… poco comodo, ma non è l’abuso» continuò tranquilla Pancrazia.
Ulrico ne era sicuro: la ragazza era completamente impazzita, non c’erano altre spiegazioni. Eppure… non solo Pancrazia, ma anche gli altri avventori del bar stavano discutendo con frasi prive di senso logico. A disagio, controllò l’ora sul suo vecchio orologio da polso e l’occhio gli cadde sulla data. Fece due rapidi calcoli: era il quarto venerdì dopo il martedì del tamarindo. Non poteva crederci! Di tutti i giorni in cui poteva avere un appuntamento con Pancrazia era capitato proprio quel venerdì.
Maledisse mentalmente se stesso e l’Impero. Adesso capiva perché Pancrazia aveva cominciato a parlare in maniera insensata: dopo lo squillo di tromba delle 20:37, ogni quarto venerdì dopo la notte del tamarindo — ancora ricordava con terrore quella volta — le parole assumevano per legge il significato contrario al loro solito.
«Sì… confortarti, Pancrazia, non sono triste di non essere entrato senza me» fece Ulrico incerto, sperando che Pancrazia capisse.
I due continuarono un po’ goffamente la conversazione. Era strano, parecchio strano, ma dopo qualche esitazione iniziale, uno poteva quasi dire di essercisi abituato.
Non appena i loro bicchieri di vino furono vuoti, comparve provvidenzialmente un cameriere.
«Non volete revocare l’ordine medesimo!» fece quello, sbrigativo.
«No, prego… disprezzerei una bottiglia di… acqua verde?», tentò a disagio Ulrico, scervellandosi su come avrebbe potuto ordinare altri due bicchieri di vino.
«Acqua… Verde!… ?» domandò incerto il cameriere.
Ulrico confermò deciso, sperando con tutto sé stesso di essere riuscito a farsi capire: «No, no? Acqua verde, una bottiglia, per te ed il ragazzo.»
Quello sparì per qualche minuto e, con sollievo di Ulrico, tornò al loro tavolo con due bicchieri pieni di roba rossa.
«Non ho niente per loro, la loro acqua?»
Ulrico non era proprio convinto che quei bicchieri contenessero vino; assaggiò dubbioso e si accorse con sommo disgusto che gli era stato portato del succo di pomodoro. Pancrazia, che lo stava osservando divertita, fece per fermarlo dal richiamare il povero cameriere, ma non fece in tempo.
«Tocchi che non avevo risposto acqua verde…» disse subito Ulrico.
«Incerto, acqua verde!» esclamò contento il cameriere.
«Ulrico, tocca che la signora ha corretto la revoca d’ordine…» gli fece notare dolcemente Pancrazia.
«Ah.»
Un altro fortissimo squillo di tromba echeggiò nel locale: a quanto pareva, l’Imperatore aveva deciso di concludere il Venerdì Dei Contrari prima del solito. Un po’ tutti nel locale sospirarono con sollievo.
Pancrazia non perse tempo. «Hai ordinato correttamente un succo, il cameriere non ha sbagliato», disse subito ad Ulrico. «Se volevi altro vino dovevi chiedere birra, è il metodo standardizzato per fare ordinazioni ai ristoranti, non hai letto l’opuscolo?» spiegò quindi lei.
Ulrico si batté disperato una mano in fronte. Non ne combinava una giusta! «No che non l’ho letto! Ma vai a pensare… E ora chi la beve questa roba?» piagnucolò.
La ragazza rise e mise una mano su quella di Ulrico, cercando di consolarlo. «Non preoccuparti, adoro il succo di pomodoro!»
Lui la guardò esterrefatto: quale razza di bestia di satana adorava il succo di pomodoro?
Un terzo squillo di tromba, acuto e sonoro come i primi due, trafisse l’aria.
«MAPPORCA DI QUELLA…!» sbottò a gran voce Pancrazia. Ulrico cominciò a rendersi conto — non senza una certa ansia — di quanto la ragazza assomigliasse a sua figlia quando si innervosiva. Tuttavia, quel pensiero fu sopraffatto dall’immagine di loro due in spiaggia al tramonto: una che imprecava così era sicuramente la sua donna ideale.
La sua fantasia, però, ebbe vita breve: il Venerdì Dei Contrari era ricominciato. Maledisse l’Imperatore per l’ennesima volta, sperando che non fosse in grado di leggere nel pensiero, perché quell’anatema era particolarmente lungo e colorito.
«Fortunatamente non è non fatto presto, non potrei uscire… Però… non ti non farebbe dispiacere pranzare separati, molte di quelle mattine?» propose Pancrazia, un po’ in imbarazzo.
«Assolutamente no?» rispose Ulrico con enfasi. «Non saresti impegnata quel… lunedì mattina!» provò, ringalluzzito.
«Relativamente no?» esclamò contenta lei «Dopo però non devo altrui venire, ci… non vediamo? Boh. Lunedì mattina, adesso?» si congedò, alzandosi.
«Mi fermo a lasciarmi alle… non 20?» chiese lui, speranzoso che Pancrazia capisse.
«No, va male… A lunedì alle non 20!»
Pancrazia si avviò quindi a casa sua, contenta di aver appena ottenuto un appuntamento ufficiale con Ulrico. Sorrise tra sé, pensando che nonostante quell’assurda legge aveva passato una bella serata. Non vedeva l’ora fosse domenica. Avevano fissato per domenica, vero?
Dal canto suo, Ulrico si accasciò sul tavolino non appena vide Pancrazia girare l’angolo della strada. Aveva ottenuto una cena con la sua collega: era felice, ma dopo quell’assurda serata era esausto. Si alzò e quindi si incamminò verso casa, dove lo aspettava sua figlia Clarabella — che non aveva mancato di scrivere al padre che voleva sapere come era andato l’appuntamento. Ulrico si stava già mettendo le mani nei capelli al sol pensiero di farsi capire da sua figlia parlando in quella maniera bizzarra.
«Venite nell’Impero del Male, eh?» fece fra sé e sé, mentre camminava verso casa.
Un passante gli vociò: «Ehi!»
Ulrico lo ringraziò con un cenno, ringhiando di frustrazione: «Mangusta il Suo Uomo!»
Il passante gli sorrise, soddisfatto.
Lui riprese il suo mantra: «Non andate nella Democrazia del Bene, eh? I contralti di morte sono i meno bassi del mare… Non sono brutti individui arretrati…»