Capitolo 6

Il sole era sorto da pochi minuti e Fabio già non lo sopportava più.

«Abbòzzala di splendere, coso giallo!» inveì, la voce ancora impastata dal sonno.

Schiuse lentamente gli occhi, tentando di abituarsi alla luce che inondava quella che adesso era casa sua — anche se a chiamarla casa ci voleva un bel coraggio.

Fabio si trovava in un vecchio, osceno appartamento, dove caos, sporcizia e trascuratezza regnavano sovrani. Il pavimento, costellato da un inquietante miscuglio di cianfrusaglie e rifiuti, rappresentava una sfida importante per chiunque intendesse camminarci sopra. L’arredo principale, che da solo occupava quasi metà dell’unica stanza, era un vecchio tavolo traballante, finemente decorato con scatole di medicine, buste d’erba vuote e riviste ormai imparate a memoria.

Fabio richiuse gli occhi, immaginando di trovarsi su un lettino in riva al mare. Non funzionò: rinunciò all’idea di riaddormentarsi e si costrinse ad accettare di essere sveglio.

Sconsolato, si stiracchiò lentamente e si stropicciò gli occhi, cercando di dare un senso alla sua esistenza.

Una fitta di dolore lo colse: si era involontariamente grattato l’orecchio, togliendosi la crosta del taglio; si alzò di scatto e corse subito verso lo specchio per controllarsi la ferita, ma inciampò nei pantaloni che aveva abbandonato per terra giorni prima.

«Mmmhrrraaaw!» ringhiò furioso.

Fabio si rimise in piedi, ma la repentina ascesa infierì sulla sua pressione ancora bassa: barcollò goffamente e poi piombò di nuovo sul pavimento.

«Mapporcodd…!!!»

L’eresia che seguì raggiunse non meno di tre religioni diverse.

Dopo essersi finalmente sfogato offendendo varie divinità alle quali non credeva, Fabio si calmò. Con molta cautela, raggiunse la parete opposta a quella del suo letto, dove aveva appeso un minuscolo calendario promozionale. Recuperò un pennarello e tracciò la nona, microscopica croce. Rimase a osservare stupidamente le caselle segnate per qualche momento, poi, all’improvviso, si sentì pervaso da una potente eccitazione: la sua convalescenza era finita.

Era stato terribile. Non tanto il dolore quanto il puro fastidio, non tanto le medicine quanto il cibo in scatola che si era dovuo procurare; e anche questi disagi erano niente, se confrontati alla più intensa sensazione di noia che Fabio avesse mai provato. Si sarebbe potuto dire che era andata bene, che i postumi delle operazioni erano stati molto più leggeri di quanto si aspettava, ma restare chiuso in quel sudicio appartamento per tutto quel tempo, senza potersi lavare e riuscendo a malapena a dormire, beh, era stato sicuramente più duro del previsto. Fabio si era organizzato: aveva fatto scorta di hashish e di libri, riviste e giornalini da leggere per ammazzare il tempo — ma la droga, forse per l’interazione con gli antibiotici forse per la solitudine, non lo aveva divertito come avrebbe dovuto; e l’intrattenimento, beh, a un lettore svelto come lui era durato sì e no mezza giornata.

Sospirò. Almeno ora, con le ferite ormai del tutto rimarginate, avrebbe potuto concedersi una doccia.

Sentendosi sollevato, Fabio si precipitò cautamente nel bagno e si specchiò; il suo riflesso avrebbe spaventato chiunque, ma lui aveva imparato a direzionare lo sguardo con chirurgica precisione, ignorando la visione d’insieme. Le ferite alle orecchie si erano cicatrizzate, e la garza sul naso non sanguinava ormai da qualche giorno; il mento era già a posto da un pezzo, nonostante la sensazione di rigidezza che si irradiava a tutta la mandibola. Fabio soppresse un debole sorriso, senza smettere di osservarsi. Si tastò delicatamente nel punto in cui qualcosa di molto simile a uno scalpello aveva plasmato l’osso: vide le stelle dal dolore, ma a parte quello sembrava abbastanza solido.

Il pensiero si formò prima che potesse rendersene conto, propagandosi radioso sul suo volto e costringendolo finalmente a sorridere: “È davvero finita”. Si tolse definitivamente la garza e si concesse finalmente un momento di narcisismo.

Un’incudine si formò nel suo stomaco.

Trattenne a malapena una smorfia di disgusto, cercando invano di resistere all’amara delusione lo avviluppava. Non riusciva a credere che quello specchio potesse riflettere una tale bruttura senza rompersi per protesta; nove giorni senza curare il suo aspetto lo avevano reso assolutamente inguardabile, ma non era solo quello.

Il finto chirurgo aveva fatto veramente un pessimo lavoro, e grazie tante.

Il naso sembrava aver subito una bella spianata con una lima da ferro, tanto era evidente la fresca cicatrice della rimozione della gobba. Il mento pareva davvero aver ricevuto un trattamento a suon di martello e scalpello, ma tutto sommato non era sgradevole alla vista; se solo non avesse provocato così tanto dolore ad ogni minimo contatto, avrebbe potuto essere un lavoro quasi accettabile. Le orecchie, invece, erano qualcosa di inquietante: senza le croste, il taglio della cartilagine non si notava, ma si percepiva comunque un qualcosa di artificiale in quella forma, quasi fosse un bizzarro esperimento di body modification.

Senza pietà, un’antica angoscia colpì Fabio. Prese a tormentarsi la barba, incapace di fermare il flusso di pensieri che lo investiva.

Il suo bel volto, molto equilibrato e tutto sommato di bell’aspetto, era stato vituperato da un tizio inquietante per quattrocento euro. Non era tanto il risultato, che alla fine era all’altezza delle aspettative e comunque più che sufficiente a garantirgli quel minimo di camouflage di cui aveva bisogno; era il realizzare di essere stato costretto a rinunciare a un importante pezzo di sé per continuate a vivere.

Aveva ventisette anni, era nel fiore della gioventù, nel momento di massimo splendore. La sua bellezza giovanile, un’immeritata fortuna di cui godere, un piacevole ricordo di cui essere orgogliosi da vecchi; tutto questo era stato sacrificato senza esitazione sull’altare di… qualcosa.

Già, era proprio quello il punto. Nel nome di cosa aveva compiuto questo gesto?

La verità di quello che aveva fatto lo investì, forte, violenta e impietosa come una mazzata sulle gengive; Fabio si appoggiò a peso morto alla parete, lasciandosi sfuggire un penoso lamento. Qualcosa dentro di lui si era rotto. Mille domande piombarono su di lui, dure e penetranti come lame d’acciaio, senza alcuna risposta a fare scudo.

Scoppiò a piangere.

Erano mesi o forse anni che Fabio non piangeva. Le sue lacrime sembravano scavare dei profondi solchi sul viso e sul petto, erodendo la sua pelle, la sua corazza. Come lava incandescente, il suo pianto consumò in un istante il suo guscio, lasciandolo nudo al cospetto del suo alter ego riflesso.

Fabio si arrese al giudizio di sé stesso, sprofondando nell’umido riflesso del proprio sguardo.

Appena due settimane addietro, la sua vita piroettava verso quella che sembrava proprio un’insidiosa spirale di cambiamenti. Guardando le cose con una prospettiva più ampia, non è stesse succedendo chissà cosa: alcune situazioni stavano mutando, altre addirittura precipitando; alcune persone si allontanavano, altre invece avrebbero potuto avvicinarsi. Se le cose a un certo punto vanno male, non significa che l’intero mondo è guasto — eppure a un certo punto, Fabio aveva preso e se n’era andato a Barcellona e si era fatto mutilare da un tizio losco.

Era questa la sua arma migliore per far fronte alle difficoltà? Era questo che i suoi cari gli avevano insegnato? Cosa avrebbero detto se l’avessero visto in queste condizioni?

Sotto il severo sguardo del Fabio riflesso, quello reale continuava a versare fiumi di lacrime, che riflettevano a loro volta la luce del sole mattutino; gli zampilli di luce rimbalzavano per la stanza, punteggiandola con coriandoli luminosi.

Qualcosa di pericoloso si innescò dentro Fabio.

“Che hai da guardare?”, fece a sé stesso.

Si rispose con un amaro sorriso.

“Ti diverto? Sono buffo?”

Gli occhi nello specchio rimasero severi.

“Mi trovi patetico, vero?”

Un barlume rosso fremette dietro quello sguardo, e la bomba finalmente esplose.

Fabio sferrò un pugno al suo riflesso, deciso a cancellare dalla storia quell’immagine. La sua educazione, la sua visione del mondo, le sue esperienze: tutto cancellato. Il suo dolore non aveva più ragione di esistere. Era per questo che se ne era andato, che aveva fatto strappare via pezzi di sé stesso. Lui era la sua volontà, non la sua storia. Lui non esisteva più.

Sorrise follemente a ciò che rimaneva del suo riflesso, credendo di aver vinto.

Fino ad allora, senza averlo scelto coscientemente, Fabio aveva vissuto osservando rispetto per il prossimo, provando solidarietà per i bisognosi, riponendo fiducia nell’amore. Esattamente come tutti gli altri, come tutti gli stupidi — ma lui non era stupido. Era arrivato il momento di ammettere l’errore, di voltare pagina, di abbandonare la sua coscienza, la sua moralità — folle debolezza, gratuito punto debole! Da quel momento sarebbe diventato un Dorian Gray, un’entità dedita solo al proprio piacere e tornaconto; un perfetto egoista dawkinsiano, ma in pura chiave edonistica.

Da quel momento in poi, tutto sarebbe stato diverso.

Ripreso finalmente il controllo di sé, Fabio si infilò sotto la doccia. L’acqua che gli scorreva addosso sembrò purificarlo, in una sorta di bizzarro battesimo che consacrava la sua rinascita. Si lavò con estrema cura, togliendo ogni traccia della sua convalescenza, e quando ebbe finito si ravversò la barba, cresciuta incolta fino a quel momento, riducendola ad un dignitoso pizzo. Si riflesse in ciò che era rimasto dello specchio, osservando il suo nuovo volto. Da allora in avanti avrebbe mostrato quella faccia al mondo: ne prese atto senza il minimo rimpianto.

Si vestì e uscì, pronto a compiere l’ultimo gesto necessario per la sua rinascita.

Uscire fuori dopo tutta quella prigionia fu un’esperienza fantastica: ogni aspetto del mondo esterno destava in Fabio molto più interesse di quanto non avrebbe fatto in condizioni normali. Il sole che bucava i suoi poveri occhi avvezzi al buio, la perenne brezza salmastra che gli rendeva barba e capelli stopposi, la gente da scansare sui marciapiedi: tutti i piccoli aspetti di Barcellona che aveva odiato appena ci era arrivato, adesso gli apparivano meravigliosi. Sorrise addirittura a un passante, e quello gli restituì guardingo la cortesia.

Prese ad aggeggiarsi la barba, ma non compulsivamente come aveva fatto appena un’ora prima: ora accarezzava i peli per il verso, cercando di farli convergere tutti in un punto con movimenti lenti e fluidi.

A suo agio in quella nuova forma mentis, Fabio avvistò ciò che stava cercando senza quasi rendersene conto.

Era una casottino per le fototessere. “Al fianco di un palazzo sul lungomare all’angolo di Selva de Mar.”, si rammentò con tutta la strana calma che lo contraddistingueva. Cercò nel suo borsello una moneta ottenuta tanto tempo prima, simile ai due euro ma costruita con un materiale molto più pesante. Avrebbe funzionato? L’amico del Bagonghi era sembrato affidabile — per quanto potesse sembrarlo un mafioso.

Entrò nella cabina e quasi svenne per l’aria soffocante che vi era dentro; era talmente stretta che riusciva a malapena a sedersi sullo sgabellino. Si trovò davanti a uno schermo in stand-by, sul quale comparivano le istruzioni per ottenere le fototessere; non erano scritte in catalano e spagnolo, ma in inglese, arabo e cinese.

Sempre più fiducioso che quella non fosse una normale macchinetta, Fabio inserì la moneta nera nella fessura per gli spiccioli.

Non successe niente.

“…nna maiala!” pensò furioso, prendendo goffamente a calci e pugni ogni cosa che riuscì a raggiungere. “Ora t’accomodo a pedate se un tu parti!”

Qualcosa dietro lo schermo si mosse, forse stuzzicato dai violenti colpi ricevuti. Ci fu un rumore metallico e, con immenso sollievo di Fabio, sulla schermata comparve un conto alla rovescia. Un flash, un rumore di stampante anni novanta ed eccolo: un documento di identità catalano con la sua foto appiccicata e timbrata.

Fabio era diventato Jorge Pedrosa — o così credeva.